Alcuni specialisti hanno riportato nuovi dati che evidenziano l’impatto della solitudine e dell’isolamento sociale sulla gravità della malattia di Parkinson (MP).

Vorrei sentirmi meno sola
La pandemia del Covid 19 ha rivoluzionato i nostri stili di vita. Ma a noi Parkinsoniani ha tolto qualcosa di più … la socializzazione e l’attività motoria.
Per un parkinsoniano il detto “Chi si ferma è perduto” vale doppio.
Già la malattia ci costringe progressivamente a sentirci come dentro una tuta da palombaro; l’isolamento sociale ci ha privato di stimoli e ci siamo fermati al di sotto della soglia di mantenimento.
Come si evince dalla revisione della letteratura scientifica allegata, in cui sono stati considerati gli studi scientifici pubblicati sulla bancadati Pubmed negli anni 2020 e 2021, il trattamento integrato e la teleriabilitazione nella Malattia di Parkinson (MP) sono due fenomeni oggetto di attenzione da parte della comunità scientifica anche, ma non solo, in relazione alla pandemia da COVID-19. Di seguito, un breve riassunto divulgativo del report completo.
Seppure la terapia standard per la MP continui a essere quella medica, negli ultimi anni è stato dedicato sempre più spazio alla discussione e all’analisi di interventi non farmacologici per la MP nell’ottica di un approccio di cura
integrato, che migliori la qualità di vita dei pazienti e che li coinvolga, insieme ai caregiver, nella progettazione ed implementazione degli interventi. Tra gli interventi di riabilitazione, svariati sono i programmi e le tipologie di attività
motoria (es., esercizio fisico aerobico, Thai Chi, ballo, bicicletta, Yoga e Tango Argentino) che producono miglioramenti significativi sui parametri motori e sui parametri non motori della MP, come la qualità di vita e (nel caso dell’esercizio aerobico) il funzionamento neurocognitivo.
Tra gli interventi non motori, alcuni studi indicano la
psicoterapia cognitivo-comportamentale per promuovere una migliore gestione della sintomatologia ansioso-depressiva; altri studi dimostrano l’efficacia del training cognitivo sul mantenimento del funzionamento neurocognitivo nella MP.
L’applicazione di interventi di teleriabilitazione, se da un lato permette la continuità delle cure e l’erogazione di programmi riabilitativi multidisciplinari, dall’altra promuove una gestione e un monitoraggio attivo della MP da parte
dei pazienti e/o dei loro caregiver. Diversi studi dimostrano effetti positivi della teleriabilitazione su vari domini motori (es., equilibrio, andatura e destrezza degli arti superiori) e non motori della MP (es., disfagia, funzioni neurocognitive),
nonché sulla qualità di vita e sul grado di soddisfazione percepita in relazione al trattamento.
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La storia
Ci sono stati tempi nei quali desideravo la solitudine più di ogni altra cosa. I miei cassetti erano ingombri di biancheria di tutta la famiglia, I miei libri mischiati a quelli di mio marito. Le mie giornate vorticavano intorno a compiti dei quali mi ero caricata volontariamente e con piacere-la carriera professionale, la cura dei figli, la vita sociale con i suoi obblighi le attenzioni verso gli amici- compiti tuttavia al cui centro erano sempre gli altri. Mille bisogni altrui che oscuravano la mia persona, I miei bisogni, riempivano il mio tempo e non m lasciavano mai sola. Guardavo gli scaffali pieni di libri: I libri dell’adolescenza, sgualciti e sottolineati più volte, I libri intonsi che compravo e non avevo tempo di leggere o che rinunciavo a completare, continuamente interrotta dalla richiesta di attenzione di uno dei bambini o disturbata dal cicaleccio della televisione . Mi dicevo sempre che “da vecchia “ li avrei messi in ordine alfabetico e li avrei letti o riletti tutti, dalla A alla Z, saggi e romanzi, libri di poesia e guide turistiche, sola, finalmente, nella casa silenziosa e vuota. Era, in fondo, solo un sogno di solitudine. come fermarsi a fare un pisolino mentre tutto intorno a te rumorosamente e felicemente senza sosta gira.
Con il Parkinson è cambiato tutto. La solitudine è diventata una componente della mia vita, un’Idra con mille teste e mille modi di presentarsi. La prima solitudine sperimentata è quella, naturalmente, del momento della diagnosi: non sapevi neanche esistesse questa malattia e adesso te la trovi incollata addosso; ti scoppia dentro come 1 granatala consapevolezza che il tuo Io. Alle cui capacità adattive e reattive ti affidavi è diventato uno straccetto informe e non sembra più in grado di aiutarti.
Poi viene il momento del coming out: lo dici agli amici, dopo la sorpresa e il dolore, arriva la paura e l’interlocutore più o meno compostamente se la dà a gambe: cala un vetro di plexiglas tra te e l’amico di tutta la vita, lo vedi, ti parla, piange con te ma non lo puoi toccare. Da ora in poi appartenete a due mondi diversi: lui è sano e tu no, il suo corpo compie senza averne coscienza precisa, automaticamente, centinaia di attività (comminare, respirare, sorridere) che tu affronti spesso con scarsi risultati cercando di reinventare ogni singolo minuto della tua vita. Da lontano, come immerse nella nebbia, ti giungono le sue rassicurazioni (“non si vede per niente”, “tanto va avanti lentamente”, “ conosco uno che ce l’ha e ancora lavora”) l’ostentazione di una “normalità” omertosa e finta che introduce tra di voi un elemento di estraneità incolmabile. Nella mia esperienza con i due/terzi circa delle persone che consideravo amici intimi non ci frequentiamo più, se si eccettua qualche telefonata o qualche messaggio nel quale ci si ripromette, senza molta convinzione, di incontrarsi di nuovo. Non credo che la responsabilità sia solo da una parte. Le persone hanno paura della malattia, non sanno come affrontare la sofferenza delle persone care , così semplicemente cercano di non porvi attenzione e di non pensarci.
Dal canto mio anche io cerco di non pensarci. La solitudine non solo mi permette di non confrontarmi con gli altri, i sani e, ma evita anche che io mi guardi allo specchio, frequentando altri parkinsoniani. Temo I confronti perchè finiscono per mettere in crisi quell’equilibrio che negli anni ho tentato di costruire attraverso le cure farmacologiche, le attività terapeutiche complementari, la ridefinizione dei ruoli e delle attività, (ad esempio mettersi in pensione o accettare la badante), insomma tutto ciò che costituisce il mio lavoro di malato affetti da una malattia degenerativa. Che senso ha tutta questa fatica se poi comunque “si diventa così”?Una fatica che si potrebbe sintetizzare come “andare avanti per non tornare indietro su un tapis roulant che, comunque, aumenta continuamente la velocità”.
D’altro canto non c’è dubbio che essere malati è faticoso. A volte si cerca di evitare qualunque sforzo in più rispetto alla fatica di sopportare I sintomi. Lavarsi vestirsi tenere la pipì per più di 5 minuti, camminare negli spazi aperti, parlare, sorridere sono operazioni, spesso frustranti, ma talvolta anche molto onerose. Allora perché darsi tanta pena? Perché indursi a fare amicizia, a comunicare agli altri le proprie emozioni? Perché lottare per restare collegati col mondo e con quella parte di noi stessi che è felice solo all’interno della relazione con l’altro?
Perché la solitudine dà dipendenza, come una sostanza che allevia velocemente il male, ma nel contempo inebetisce, addormenta i desideri e ti illude facendoti credere di non avere bisogno di nessuno. La solitudine deforma l’anima, per proteggerla la stringe in fasce che la atrofizzano.
La solitudine è un inganno perché ci fa credere di poter negare e ignorare il dolore e la rabbia dentro di noi ma soprattutto ci illude di poter vivere nascondendo la semplice verità che non possiamo esistere senza accettare di affidare la nostra voglia di vita e di felicità alle cure dell’altro.
di Brigida Zumbo