Il Parkinson è una patologia neurodegenerativa e come tale, può manifestarsi in diverse modalità, con un'evoluzione lenta ma progressiva.
Come è ben noto può portare problemi soprattutto nel controllo dei movimenti e nell'equilibrio.

VORREI CHE ALMENO SI FERMASSE
Vorrei che almeno si fermasse, ma questo non è possibile, quindi?
Quindi posso aiutare il mio corpo a rallentarla, cercando di mantenerlo sempre in movimento, con i movimenti giusti, i professionisti adatti a questo e dei compagni di viaggio che mi motivano ad andare avanti, guardando sia i miei che i loro risultati.
La storia
Quando ho avuto la mia diagnosi di Parkinson la mia reazione è stata, credo, molto in linea con la modalità che mi riconosco di trattare I problemi. La disperazione è durata tutto sommato poco e ben presto ho adottato una modalità attiva di comprensione di quello che stava accadendo: ho cominciato a cercare informazioni, ho contattato alcune persone di Aigp, l’associazione di pazienti della quale qualche anno dopo sarei diventata presidente -ma poi non mi sono fatta sentire per 1 anno e mezzo! - ho cercato di far tesoro di quello che i medici mi dicevano.
All’epoca il messaggio che ho captato è stato abbastanza simile trasversalmente alle diverse modalità di porgersi dei diversi professionisti: qualcuno più in ascolto, qualcun altro meno empatico, imbarazzato, di sostegno o meno, avevo la sensazione che tutti mi stessero dicendo la stessa cosa: hai una malattia neurodegenerativa che non si può curare, della quale sappiamo poco e che può essere controllata nei suoi sintomi principalmente e sostanzialmente con la somministrazione di farmaci. I più accorti aggiungevano in fine seduta che una alimentazione adeguata sarebbe stata importante per tenere sotto controllo il peso e far sì che gli alimenti non interferissero con i farmaci.
Inoltre il movimento poteva fare molto per me. Una dottoressa peraltro molto quotata e davvero brava nel suo lavoro mi aveva spiegato la cosa in questi termini: se lei si rompe una gamba e deve girare con le stampelle nel prossimo mese riuscirà a camminare e scendere le scale se i muscoli sono allenati mentre se non lo sono probabilmente non riuscirà neppure a fare 2 gradini e uscire di casa. Sembrava semplice ma non molto rassicurante: avrei dovuto rassegnarmi a vivere con le stampelle (i farmaci) e una gamba per sempre rotta (i miei neuroni fulminati).
A quell’epoca a parte la preoccupazione per il futuro la mia mente era spesso occupata dalla domanda: perché mi ero ammalata? La risposta era no a tutte le eziologie più banali: familiarità, esposizione a radiazioni o a disastri chimici, utilizzo di pesticidi o diserbanti e chi più ne ha più ne metta.
Di una cosa però ero stata certa dal primo momento e cioè che questa ulteriore malattia era sicuramente un messaggio come dire “finale”: come quando all’aeroporto chiamano per cognome i ritardatari e chiudono il volo. Il mio corpo mi dava un ulteriore e drastico segnale quasi esasperato dal fatto di non aver avuto nessun ascolto ai segni di difficoltà che da tempo periodicamente mi inviava.
Avevo avuto un tumore al seno nel 2011, piccolo, diagnosticato per merito della prevenzione molto presto e molto presto rimosso con esiti per nulla drammatici: una piccola cicatrice che quasi non si vedeva e 3 settimane di radioterapia. Era pur sempre un carcinoma infiltrante ed era già arrivato al 1º linfonodo ma io mi ero fatta un vanto del fatto di presentarmi in studio dopo appena una settimana dall’intervento fasciata come una mummia egizia, costretta a farmi aiutare dalla mia assistente per sedermi e per alzarmi ma sorridente e nell’esercizio delle mie funzioni.
Dopo qualche tempo erano cominciate le coliche addominali: ero andata un paio di volte al pronto soccorso, rigorosamente da sola, “tanto che problema c’era” e si era presto capito che avevo la cistifellea piena di calcoli tanto che alla fine, tra la mia onnipotente trascuratezza e i disservizi delle strutture pubbliche quando ero stata operata la nostra operosa produttrice di bile-non mi lascio andare a facili considerazioni sulla significato simbolico che la bile ha nella nostra cultura ma vi ricordo solo l’espressione “avere un attacco di bile” nel senso di perdere il controllo per la rabbia-era sul punto di scoppiare con rischio gravissimo, come si può immaginare.
Era evidente ai più che facevo una vita al di sopra delle mie possibilità: dimenticando che il mio corpo e la mia mente non potevano vivere e lavorare l’uno senza l’altro. Invece io mi comportavo come se fossi stato il cervello del protagonista di Frankenstein junior chiuso dentro nel vaso di vetro con la formalina successivamente impiantato nel corpo dell’uomo artificiale che come sappiamo non sarebbe stato un esempio né di armonia né di bellezza e neppure di umanità.
D'altro canto, come si sa, i sintomi di qualunque malattia sono, anche etimologicamente, dei segnali che l’organismo emette perché l’individuo si concentri e si prenda cura della parte che si sta a ammalando. Esiste da che mondo è mondo una sorta di dialogo tra l’individuo e il suo corpo. Però mi sembra che con l’avanzare delle possibilità di guarigione dovute alle nuove tecnologie farmacologiche, chirurgiche, genetiche e quant’altro questo dialogo si affievolisca sempre di più nella nostra mente e dunque il corpo che in qualche maniera più facile da curare di quanto fosse un tempo, venga strapazzato molto di più e tenuto in minor considerazione.
Per fare un esempio: quando io ero piccola i raffreddori o le malattie esantematiche venivano curate tenendo i malati, adulti e bambini, letteralmente sotto le coperte almeno per una settimana o per il tempo che ci voleva per guarire e per fare la convalescenza. Nella generazione precedente alla mia, infatti, essendo le medicine a disposizione molto più rudimentali e meno diffuse si poteva davvero morire per una banale infezione alle vie aeree. Attualmente quando si ha l’influenza-almeno prima del Covid, ma questa è un’altra storia-ci si imbottisce di tachipirina, si prendono gli antibiotici, e se -e dico se - ci si concedono 2 giorni di malattia il terzo giorno si torna all’asilo o al lavoro, con buona pace della convalescenza.
Perché vi metto a parte di queste considerazioni, peraltro piuttosto ovvie e ritengo condivise? Perché penso che se il corpo parla alla mente deve essere possibile per la mente parlare al corpo. Cosa vuol dire questo? Secondo me significa che, per tornare al nostro Parkinson, quando pensiamo ai disturbi motori dovuti al fatto che le vie neuronali sono in qualche maniera bloccate e arrivano con lentezza o non arrivano affatto, dovremmo prendere in considerazione l’idea che forse la mente può “prendere in mano la situazione” e ristrutturarsi rendendo volontari e coscienti quei movimenti che non sa più fare automaticamente.
Perché mente e corposi parlino occorre che la Medicina con la M maiuscola- e non solo le varie medicine olistiche narrative omeopatiche - si rassegni a pensare davvero all’uomo come ad un essere integro e unico, nel quale gli aspetti corporei, mentali e relazionali non si possono scindere se non irreggimentato la realtà e la nostra fisiologia in categorie del tutto artificiali.
Dunque deve essere possibile trovare 1 linguaggio comune. Il movimento, opportunamente strutturato e finalizzato, diventa dunque non allenamento dei muscoli e neppure degli apparati relativi alla propriocezione o al senso dell’equilibrio ma piuttosto uno stimolo di ritorno rispetto al funzionamento dei neuroni che in qualche modo il sistema corpo mente a trovare vie alternative all’interno delle vastissime possibilità di combinazione delle cellule nervose e a produrre nuovamente i neurotrasmettitori che sono necessari perché le sinapsi, cioè i contatti fra le cellule nervose funzionino.
Bisognerà in un futuro speriamo prossimo avere il coraggio di dire che il movimento, e la coscienza della sua azione con e a favore della mente non sono accessori della terapia farmacologica ma sono curativi a pieno titolo. La cosiddetta neuro plasticità ovvero della capacità di trovare nuovi percorsi da parte degli impulsi nervosi le cui vie usuali sono bloccate, è presente fisiologicamente nell’individuo ed è ciò che ci permette di apprendere per esempio informazioni nuove e cambiare punto di vista in base a quelle. Se applichiamo questo principio in maniera preventiva e dunque cominciamo il movimento subito, appena veniamo diagnosticati questo diventa quello che si chiama neuro protezione ovvero una cura preventiva che tende a stimolare preventivamente le capacità neuro plastiche del sistema, di fatto rallentando la progressione della malattia.
Sono convinta, o forse spero , che nel giro di pochi anni, il medico di fronte al neo diagnosticato si senta autorizzato da ulteriori conferme scientifiche-e forse da una minore pressione da parte delle case farmaceutiche-a consigliare accanto ad una terapia farmacologica anche l’attività fisica, specificando il tipo, l’intensità, la frequenza e non ultimo inserendo nella prescrizione gli aspetti relazionali che andrebbero studiati anch’essi come fattori di neuro protezione e neuro plasticità.
Ma anche questa è un’altra storia.
Di Brigida Zumbo